La critica marxista della scienza capitalistica: una storia in tre movimenti? Introduzione – Prima parte

di Gary Werskey

per Bob Young

Introduzione

Il mio obiettivo, con questo scritto, è comprendere, come partecipante e come osservatore, la storia e le prospettive della critica marxista della scienza capitalistica.

Tale prospettiva – e le politiche da essa sostenute – hanno vissuto una breve fioritura, in particolare in Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti, negli anni Trenta e Quaranta, per poi essere riprese e trasformate solo negli anni Sessanta e Settanta. In entrambi i casi, i critici socialisti hanno attinto dalla propria esperienza personale, professionale e politica – influenzati dal marxismo della loro epoca – dando vita a nuovi e stimolanti resoconti circa la storia, la filosofia e le politiche della scienza. Tuttavia, nessuna corrente marxista ha condizionato, in modo significativo, la tendenza dominante nello sviluppo degli studi su scienza e tecnologia (STS) nella second meta del XX secolo. Ancora più importante per queste attività, i movimenti politici sui quali poggiavano sono interamente, e rispettivamente, crollati negli anni Cinquanta e ottanta.

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John D. Bernal (1901-1971)

Ciò nonostante, come un fantasma infernale nella macchina degli STS, l’influenza di tali critici marxisti ha aleggiato nell’ombra, nelle memorie e nelle liste di lettura. Al culmine della Guerra fredda, Marx rappresentava una sorta di spirito non annunciato, che ossessionava i resoconti dell’epoca sulla rivoluzione scientifica del XVII secolo. Né certi sopravvissuti marxisteggianti – in particolare J.D. Bernal e Joseph Needham – avevano chiuso bottega del tutto.

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Joseph Needham (1900-1995)

 Alcuni dei loro giovani accoliti sono stati, in seguito, in grado di ispirare una nuova generazione di studiosi, in un periodo di rinnovata agitazione politica, a intraprendere ricerche sullo sviluppo scientifico assai più critiche dal punto di vista sociale. Gli studenti di questo gruppo che hanno scelto di rimanere nell’ambito accademico hanno, a loro volta, agito come un legame costante a questa tradizione.

D’altro canto, la mia impressione è che, a partire dal 1980, l’influenza della critica marxista sulle discipline di tale campo di studi sia stata praticamente nulla. Il predominio dei resoconti sociologici della scienza post-kuhniani e postmodernisti ha fatto curiosamente eco alle storie “internaliste” degli anni Cinquanta, trasferendo semplicemente l’enfasi da ciò che gli scienziati hanno pensato a ciò che hanno fatto. Quindi mi colpisce l’ironia – conoscendo molti dei miti e apolitici desperados che hanno promosso il costruttivismo sociale negli STS – per la quale il loro dogma centrale è stato visto, in alcuni ambienti, come parte integrante degli sforzi di uno strambo assortimento di docenti femministe e “radicali” finalizzati a sovvertire la razionalità scientifica. Di gran lunga più preoccupante è il fatto che, mentre le cosiddette “science wars” hanno concentrato l’attenzione sulle dispute epistemologiche all’interno degli STS, i rapporti sociali della scienza venivano trasformati è sempre più subordinati a sostegno del potere e della redditività del capitale globale e, più specificamente, americano.

Eppure, all’inizio del XXI secolo, vi sono segni sia di un profondo disincanto rispetto a vari aspetti della “tecnoscienza” capitalistica, che di un certo disagio accademico circa la ristrettezza delle recenti indagini sugli studi storici e sociali della scienza. Possiamo dunque chiederci:

A quali condizioni tali tendenze potrebbero dar vita a nuova sinistra in ambito scientifico? Quale forma assumerebbe, e dove avrebbe le maggiori probabilità di prosperare?

Potrebbe una prospettiva marxista aiutarci a comprendere le origini e le sorti delle prime due fasi della sinistra in ambito scientifico? Nonché ispirare e arricchire anche la sua terza manifestazione?

Se la storia si ripete – la prima vota come tragedia, la seconda come farsa – la terza occasione potrebbe essere quella buona?

Questi sono gli interrogativi posti dal presente saggio.

Inevitabilmente, vincoli di tempo e conoscenza limiteranno la mia indagine.

Mi concentrerò prevalentemente sugli sviluppi britannici rispetto a quelli americani, e molto molto poco sulla Francia. Sino alla conclusione dovrò ignorare gran parte del resto del mondo.

Nel’ambito degli STS darò maggior rilievo alla storia della scienza, rispetto ad altre sottodiscipline, e alla prospettiva marxista.

Tra i marxismi concorrenti favorirò quello eclettico e libertario associato al  Radical Science Journal degli anni Settanta.

Pur soffermandomi spesso sulle circostanze che hanno coinvolto scienziati accademici e sulle analisi sociali che ne sono state fatte, lo spirito della mia ricerca consiste nell’incoraggiare una maggiore comprensione – e una sfida più efficace – della totalità dei rapporti sociali nella scienza e delle forme di vita sociali da essi supportate.

Questo saggio è inevitabilmente autobiografico. Ho speso un decennio della mia breve carriera di studioso tentando di comprendere le personalità, le azioni e il pensiero sociale della sinistra scientifica britannica. Dopo un intervallo di trent’anni, nella prima parte del saggio, ho rivisitato il mio libro The Visible College, ricollocando tale materiale in una cornice marxista, mi auguro, più coerente. La seconda parte tratta del movimento radicale nella scienza degli anni Settanta, nel quale sono stato impegnato sia come studioso che come attivista. Il mio punto di vista è necessariamente parziale, manifestamente laddove sono stato più coinvolto, ad esempio nel caso del Radical Science Journal. La sezione finale è puramente speculativa e basata in gran parte sulle mie speranze riguardo – più che su qualsivoglia conoscenza definitiva (o ottimismo circa) – all’emergere di una nuova sinistra in ambito scientifico, marxista o d’altro genere.

La mia conclusiva apologia metodologica riguarda l’ampiezza (e lunghezza) del saggio. Il contributo dei due precedenti movimenti agli STS era inseparabile dalla pratica politica che era loro propria, a sua volta indissolubilmente legata alle prospettive della scienza, del capitalismo e del socialismo in un epoca di straordinarie turbolenze globali. Poiché, come Robert Boyle, questi uomini e queste donne erano “a tal punto crucciati della mancanza di buon lavoro che essi hanno preso la cura dell’intero genere umano quale loro compito”, la loro teoria, così come la loro pratica, vanno collocati nel contesto della crisi di vasta portata nelle relazioni sociali, la quale ha agito da precipitante, e delle reazioni politiche e accademiche che hanno condotto alla loro scomparsa. Una volta individuatene e comparatene traiettoria e realizzazioni, è possibile una riflessione sull’eventualità che la loro storia e le loro idee, a determinate condizioni, possano contribuire a promuovere nuove tendenze di sinistra in campo scientifico nel prossimo decennio. A tal fine, concluderò con un interrogativo su quale ruolo gli studi su scienza e tecnologia (STS) potrebbero svolgere nel dotare, sia gli scienziati che i non scienziati, di una comprensione storicamente e criticamente più adeguata dei rapporti sociali della scienza contemporanea.

A parte ciò, desidero ringraziare Bob Young – cui è dedicato questo scritto – per averlo reso disponibile sul suo sito web. Con Bob siamo stati compagni di viaggio negli anni Settanta in quello che si è dimostrato un emozionante, sebbene spesso accidentato, percorso attraverso la riscoperta e trasformazione delle teorie e prassi marxiste. Ma egli ha rappresentato per me anche un modello da seguire oltreché un critico perspicace. Ho avuto modo di apprezzare sia la sua erudizione che la sua passione politica, entrambe le quali hanno contribuito a formare e guidare il mio lavoro e il mio impegno politico durante questo periodo. Alcuni hanno trovato le scelte personali e politiche di Bob, non di rado drammatiche, alienanti; io le ritengo stimolanti. dunque, questo saggio è un promemoria, per Bob e per altri, della capacità di guida da lui mostrata, così come del valore di ciò che egli, insieme d altri, ha creato in quell’epoca tanto diversa.

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Il marxismo giapponese

Elena Louisa Lange

Il marxismo giapponese è pressoché ignorato nel mondo francofono e europeo più in generale. Eppure Marx è oggetto di dibattito in Giappone sin dagli anni Venti. Elena Louisa Lange, filosofa e specialista del marxismo giapponese, ci introduce alle fasi principali della ricezione giapponese della teoria marxista: le discussioni circa la natura del capitalismo giapponese, la rielaborazione delle nozioni tratte dal «marxismo occidentale» (reificazione, alienazione, ecc.), e ancora, l’interpretazione del capitale. In tal modo viene richiamata la nostra attenzione sui rischi di una teoria strettamente economicistica e sulla ricchezza delle nuove letture di Marx.

Il marxismo giapponese è poco conosciuto in ambito francofono e europeo. Malgrado alcune importanti eccezioni, come lo studio di Jacques Bidet Kozo Uno et son école. Une théorie pure du capitalisme contenuto nel Dictionnaire Marx Contemporain, un numero speciale della rivista Actuel Marx (Le marxisme au Japon, n°2, 1987) e pochi altri testi, tale tradizione risulta assente dai dibattiti contemporanei. Al fine di colmare questa lacuna, potresti esporci le principali correnti e figure di questa tradizione?

Elena Louisa Lange: Da un punto di vista generale, è difficile trovare nel Giappone del dopoguerra un intellettuale che non abbia, prima o poi, “flirtato” col marxismo. La rielaborazione della tradizione marxista in Giappone, dopo la Prima guerra mondiale, è stata a tal punto influente, che perfino figure di stampo decisamente conservatore si sentivano in obbligo di citare il nome di Marx per essere prese sul serio nei dibattiti. Tuttavia, tale accoglienza, come ovvio, ha incontrato una certa resistenza, ed è stata anche oggetto di repressione ai suoi esordi durante l’era Meiji (1868-1912), l’era Taishō (1912-1926) e soprattutto all’inizio dell’era Shōwa (1926-1945). Nel momento in cui, ai primordi dell’era Meiji, ha luogo un periodo di «occidentalizzazione e massiccia importazione della filosofia occidentale (il quale consisterà principalmente in vasti progetti di traduzione per i quali il governo imperiale istituisce un ministero speciale), si tratta in generale, da parte delle autorità ufficiali, di difendere la cosiddetta «filosofia borghese»; vale a dire, l’idealismo tedesco, il razionalismo e l’empirismo britannici e la filosofia vitalistica francese (Bergson). Certo, Il manifesto del partito comunista viene tradotto in giapponese ad opera di un militante politico, Kōtoku Shūsui. Ma nell’insieme, il movimento socialista dell’inizio dell’era Meiji è costantemente perseguitato. Solo a partire dal 1920 si afferma una dinamica di pubblicazione attorno alla teoria marxista, compresa la traduzione del primo libro del Capitale nel 1920, seguita rapidamente dai libri II e III nel 1924. Ma  bisognerà  attendere la resa del Giappone all’esercito americano per assistere all’ampliamento di tale fenomeno – ironicamente, sarà proprio questo a promuovere gli studi marxisti nelle scuole e nelle università. Tuttavia Marx, all’epoca, non è solo un semplice tema accademico. La forte presenza del marxismo nei dibattiti pubblici del Giappone del dopoguerra ha largamente contribuito alla sua influenza sulla società giapponese. Dibattiti i quali assumono la forma di tavole rotonde su riviste e grandi quotidiani come «Ashai Shinbun» (un giornale comparabile a Le Monde), e che contribuiscono a lungo alla vivacità della tradizione intellettuale giapponese. Più in generale, sembrerebbe che una ricezione così forte, peraltro assai elaborata se si pensa alla raffinatezza metodologica delle discussioni marxologiche, presenta lo stesso vigore di quella di Hegel e Darwin alla fine dl XIX secolo.

Nakano Shigeharu
Nakano Shigeharu (1902-1979)

Per quanto concerne le differenti correnti del marxismo giapponese, ovviamente è doveroso menzionare il ruolo fondamentale del Partito comunista giapponese, dei suoi membri, dei suoi dissidenti e delle sue polemiche, ad esempio il celebre dibattito sulla natura del capitalismo giapponese svoltosi negli anni Trenta. Non mi dilungherò su questo punto, avendo Jacques Bidet già abbordato i principali aspetti di questa discussione in alcuni dei suoi studi. Viceversa, preferisco soffermarmi sulle principali correnti «eterodosse», introducendole brevemente. Innanzitutto, una delle più influenti è sicuramente quella di un marxismo orientato verso le questioni letterarie, filosofiche e alla critica culturale (cultural critic), la quale, insieme a un marxismo incentrato sull’economia politica, è stata la più presente nei dibattiti accademici. Possiamo qui evocare alcune grandi figure del campo letterario, in particolare il movimento della letteratura proletaria del decennio 1920-1930, con autori quali Nakano Shigeharu (1902-1979), o ancora Yoshimoto Takaaki (1924-2012), padre della famosa scrittrice Banana Yoshimoto, autore di rilievo del movimento di contestazione studentesco degli anni Sessanta.

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Libri da tradurre: G.E.M. de Ste. Croix, The Class Struggle in the Ancient Greek World

Il marxismo italiano in passato non ha certamente trascurato lo studio delle società antiche, tuttavia i libri sull’argomento si possono contare sulle dita di una mano, e per di più si tratta di volumi non più reperibili, se non nelle biblioteche o, con un po’ di fortuna, nel mercato dell’usato, il che vale sia per quanto riguarda testi di studiosi italiani, sia per quanto concerne le traduzioni di testi di autori stranieri.

Due libri possono qui essere utilmente ricordati, Marxismo e società antiche e Analisi marxista e società antiche [1], pubblicati a breve distanza l’uno dall’altro, nel 1977 e nel 1978. Sono entrambi raccolte di saggi di diversi studiosi, nel primo, curato da Mario Vegetti, prevalentemente stranieri e non tutti di orientamento marxista, come Moses I. Finley; nel secondo, frutto del lavoro di un gruppo di studio di antichistica, costituitosi nel 1974 presso l’Istituto Gramsci, i saggi contenuti sono tutti opera di autori italiani, in diversa misura vicini al pensiero di Marx.

The class struggleIn particolare, il primo volume citato contiene l’unica traduzione italiana [2], per lo meno a conoscenza di chi scrive, di un testo dell’autore del libro cui è dedicato questo breve post: lo storico britannico Geoffrey Ernest Maurice de Ste. Croix (1910-2000).  Il libro in questione, The Class Struggle in the Ancient Greek World [3], è il secondo pubblicato da de Ste. Croix, nel 1981, quindi  superati i settant’anni, dopo The Origins of Peloponnesian War [4] apparso nel 1972, anch’esso mai tradotto in Italiano.

La pubblicazione in tarda eta dei due saggi non stupisce se si considera la singolare biografia di de Ste. Croix [5], nato a Macao dalla figlia di un pastore protestante irlandese, missionario in Cina, e da un ufficiale della dogana cinese, passata sotto controllo britannico a seguito della rivolta dei Boxer, venne cresciuto dalla madre, dopo la morte del padre nel 1914, la quale gli impartì un’educazione rigorosamente religiosa, senza troppo successo visto che nella maturità lo storico si definiva ateo. La carriera di de Ste. Croix nel campo dell’antichistica inizia a trent’anni passati – dopo aver esercitato per circa un decennio l’avvocatura – sotto la guida di uno dei più importanti storici dell’antichità classica del XX secolo: A.H.M. Jones. La sua maturazione politica, col definitivo approdo al marxismo, risale agli anni Trenta, in contemporanea con l’ascesa del fascismo e del nazismo, come attivista del Partito laburista, dal quale in seguito si allontanerà; arruolato nella RAF, de Ste. Croix, sotto le armi, viene a diretto contatto con le marcate differenze di classe che segnano la società inglese, e dunque anche l’esercito. In questo periodo, trascorso in gran parte nel vicino oriente, cresce in lui l’interesse per il mondo antico  e l’aspirazione a dedicarvisi professionalmente nel dopoguerra. Aspirazione coronata prima con l’insegnamento alla London School of Economics, nei primi anni Cinquanta, e infine a Oxford dove resterà per il resto della sua carriera.

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L’Egitto: marxismo e specificità

di Georges Labica

L’Islam delle formazioni capitaliste periferiche può risolversi nel marxismo? È ciò su cui si interroga Georges Labica in questa dettagliata recensione dell’opera di Anouar Abdel-Malek «Ideologia e rinascita nazionale». Attraverso la magistrale ricostruzione della storia dell’ideologia nazionale in Egitto fornita da Abdel-Malek, tutte le ambiguità delle società post-coloniali a maggioranza musulmana vengono alla luce: l’incertezza tra la nazione e la comunità religiosa, il ruolo economico e militare dello stato centralizzato, la resistenza unitaria alla colonizzazione. Al di là di una storia intellettuale della rinascita egiziana, del suo fallimento e delle origini del nasserismo, Labica si impegna in una discussione sugli intellettuali progressisti del mondo arabo, il loro sradicamento e la loro resilienza. Il confronto con Abdel-Malek si rivela dunque un campo di ricerca fecondo per un marxismo risolutamente anti-eurocentrico.

Con Ideologia e rinascita nazionale (1) Abdel-Malek ci offre una summa di considerevole portata. Preziosa da una duplice prospettiva: in primo luogo apre, in particolare a noi europei – questo è il giusto contesto per ricordare la nostra appartenenza – , il campo poco o mal conosciuto di una civilizzazione geograficamente vicina e, a causa di nodi non del tutto sciolti, a noi prossima storicamente; in secondo luogo, essa si pone l’obbiettivo, esemplare per noi marxisti, di trattare in modo specifico la propria materia d’indagine. Prossimità e distanza, alterità e identità, sono quindi le premesse del nostro approccio, un po’ le sentinelle delle difficoltà che lo caratterizzano. Ma è necessario metterle sotto osservazione, non per uno scrupolo che preverrebbe i nostri passi falsi, invocando in anticipo indulgenza per loro, bensì per stabilire in tutto il suo rigore la problematica alla quale ci introduce l’opera di Abdel-Malek: quella del rapporto tra specificità e universale, o per meglio dire, quella della possibilità di un’analisi marxista concernente una realtà, una formazione economica e sociale, la quale parrebbe, a una prima approssimazione, presentare delle particolarità portatrici di una contraddizione di principio con l’approccio che intende renderne conto. In una parola: l’Egitto è un possibile oggetto di conoscenza scientifica? È passibile di una tale conoscenza, che non solo vuole produrre l’intelligibilità dei fenomeni sociali, ma anche i mezzi e le vie della transizione di ogni società a una forma superiore? A questa questione, notoriamente controversa (2), Anouar Abdel-Malek, che all’autorità dello studioso unisce quella del militante (3), dà una risposta affermativa. Diciamo, senza ulteriori indugi, che tale risposta è ormai tra quelle che contano, impossibili da eludere, e che per la ricchezza di informazioni, il rigore del suo metodo e la sua forza di persuasione, giungerà a tutti coloro in cui è viva la preoccupazione per il nostro mondo.

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Ideologia e rinascita nazionale porta a compimento il progetto di Esercito e società in Egitto (4). Questa prima opera trattava in effetti del periodo contemporaneo della storia egiziana e proponeva, partendo dai migliori lavori marxisti autoctoni sulla questione (5), una spiegazione del nasserismo della quale Maxime Rodinson ha illustrato magistralmente tutta l’importanza (6). Si trattava, nell’analizzare la composizione di classe della società egiziana insieme alle correnti di pensiero che la attraversavano, di stabilire, in un primo tempo, la natura e la funzione del gruppo politico degli Ufficiali liberi che prese il potere a seguito del colpo di stato del 1952, e in un secondo tempo, di individuare, secondo le tappe della sua pratica (7), il profilo di tale gruppo insieme a quello della società che si prefiggeva di plasmare. Ci si trovava di fronte, in tal modo, per quanto riguarda il decennio 1952-1962, a un regime segnato da profonde contraddizioni,  tanto sul piano della politica interna che su quello della politica estera (8), e ciononostante in grado di mantenere saldamente il potere e costruire una società indipendente. Queste contraddizioni rivelavano, tuttavia, la necessità di un’ideologia che consentisse al regime di auto giustificarsi e, al contempo, legittimare la propria azione presso le masse, al fine di mobilitarle. L’ambiguità tra il riferimento al socialismo (9) e l’egemonia di fatto lasciata ai sostenitori dell’Islam più reazionario, era a quel punto pronta a esplodere; lo stato militare stesso si bloccava all’interno di frontiere nazionali e nazionalistiche, nel momento stesso in cui affermava, attraverso motivazioni ideologiche nazionaliste, la sua vocazione a superarle. La tesi di Anouar Abdel-Malek tenta precisamente di risalire alle radici di tale situazione, ossia trovare nell’Egitto di ieri e di avantieri (10) la matrice di quello attuale; la preminenza, evidente sin dal titolo, attribuita all’analisi sovrastrutturale, risponde a una duplice preoccupazione: rendere conto della posizione ricoperta dall’ideologia dopo la prima rinascita egiziana e fino ai nostri giorni; sviluppare, in questo modo, un settore di ricerca lungamente trascurato (11). È così tracciata anche la nostra linea di condotta per le pagine che seguiranno: essa consisterà in una riflessione sull’obbiettivo dichiarato (12) del nostro autore, vale a dire, il problema teorico dell’ideologia.

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Mohammed- ‘Ali

È utile, prima di giungere al nocciolo della ricerca, fornire almeno una rassegna delle fasi che vi hanno condotto, trattandosi evidentemente non solo di rispettare la più elementare logica, ma di lasciare al lettore il gusto di sondare una ricchezza della quale troverà qui solo il pallido riflesso. La rinascita nazionale dell’Egitto, tra l’altro «la nazione più antica e compatta della storia» (p. 13), risale agli ultimi anni del XVIII secolo. L’Egitto moderno vede la luce con Mohammad-‘Ali (da noi Mehmet Ali), il cui regno durerà dal 1805 al 1848. «Unico tra i governanti degli stati dell’oriente musulmano dell’epoca, Mohammad-‘Ali considera il fattore economico come fondamento di quello politico – e per ciò che questo astuto ufficiale albanese assurge al rango di statista. Lo stato che si tratta di edificare, nella fattispecie, è concepito in origine, nel 1805, come una formazione etnica, incentrata su di un esercito potente e efficace, poggiantesi su un’economia moderna e autarchica» (p. 24). La storia politica stessa, all’epoca, pone l’economia in primo piano; di conseguenza è opportuno, seguendo l’autore, rintracciare i tratti caratteristici del paese:

> instaurazione del monopolio di stato nel commercio e nell’industria, in aggiunta a quello sulla terra, appannaggio del viceré fino alla legge agraria del 1858

> creazione di un mercato nazionale unificato (grandi opere di d’Ismâ’îl, successore di Mohammad-‘Ali)

> integrazione, dopo l’occupazione britannica, dell’economia egiziana nel circuito dell’economia internazionale per mezzo di prestiti e, soprattutto, della monocoltura del cotone (p. 109),

> costituzione di strutture sociali: due fatti importanti, in particolare, emergono: nelle campagne  «il processo giuridico di costituzione della proprietà privata della terra» (p. 81), nella seconda metà del secolo, fa emergere la classe dei grandi proprietari terrieri, a fianco della quale si distinguono altri tre gruppi sociali, quello dei proprietari che hanno ricevuto terre incolte, quello dei piccoli proprietari terrieri e, infine, quello dei contadini senza terra, rispetto ai quali si dispone di rare informazioni (p. 88); in città, l’epoca di Mohammad-‘Ali vede la formazione di una classe operaia dalla quale emergerà, al volgere del secolo, un proletariato industriale (nel 1899, al Cairo, viene fondato il primo sindacato, quello dei lavoratori del tabacco); gli altri ceti urbani si scompongono in classi superiori (pascià, grandi proprietari redditieri, alti funzionari, gerarchi religiosi, capi militari, quadri superiori dell’economia), classi medie e, in fondo alla scala sociale, una sorta di lumpen-prolétariat nel quale vagabondi e prostitute hanno un posto di rilievo.

Precisiamo: questa distribuzione non è statica, essa evolve in rapporto diretto con lo sviluppo del settore capitalistico (13). Questi tratti sono espressivi della specificità che segna la rinascita della formazione nazionale egiziana: uno stato centralizzato, dotato di un potente apparato, che da impulso alla vita economica e mantiene, anche sotto l’occupazione straniera, un margine di autonomia sufficiente per l’insorgere del movimento nazionale; l’esistenza di un settore capitalistico (14) nazionale e contemporaneamente integrato nel mercato economico mondiale; a tutto ciò vanno aggiunte, per completezza, alcune distorsioni interne, come la disparità di sviluppo tra alto e basso Egitto, e un rapporto città-campagna differente, per l’epoca, da quello delle altre nazioni dominate (p. 111). Ma questa specificità non ha niente di irriducibile. Se da un lato fa giustizia dell’interpretazione che vedeva nell’Egitto, secondo alcuni fino al 1952, una formazione di tipo «feudale» (15), essa riconosce non meno che «l’Egitto condivide il destino di tutti i paesi soggetti all’imperialismo, del quale J.-A. Hobson, e in seguito Lenin e Rosa Luxemburg hanno fornito il quadro d’insieme» (p. 109). Tale è l’analisi che costituisce il punto di partenza dell’inchiesta condotta da Anouar Abdel-Malek. Su questo sfondo, che rappresenta il fallimento della prima rinascita egiziana sotto l’impatto dell’occupazione britannica, l’autore va a circoscrivere l’oggetto del suo lavoro la sociologia della cultura (p. 93), alla quale chiede di produrre le condizioni ideologiche del rinnovamento nazionale contemporaneo. Quattro passaggi successivi (dalla terza ala quarta parte) e due fasi storiche successive (1805-1879 e 1879-1892) illustrano il suo scopo; ne tracceremo le linee generali, riservandoci di insistere più particolareggiatamente sull’ultimo periodo (trattato nella quinta parte, 1879-1892), introduttivo al dibattito di fondo.

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